La condanna di un preposto per non avere sospesa un’attività pericolosa

Risponde il preposto dell’infortunio di un lavoratore caduto in cantiere dalla copertura di un capannone nel caso non sia intervenuto a sospendere l’attività lavorativa per l’assenza di protezioni collettive o di dispositivi di protezione individuale.

È la figura del preposto di una impresa al centro di questa sentenza della Corte di Cassazione, una figura nell’ambito della organizzazione aziendale della sicurezza sul lavoro alla presenza della quale il legislatore ha attribuita recentemente una rilevante importanza apportando una sostanziale modifica all’art. 19 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. con il quale sono stati già imposti gli obblighi a suo carico nella materia specifica. Con tale modifica infatti, come è noto, è stato aggiunto nel comma 1 il compito per lo stesso di intervenire per modificare il comportamento dei singoli lavoratori e di interrompere anche la loro attività, se non conforme alle disposizioni di legge e aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza e informando i diretti superiori. Allo stesso preposto altresì, con l’introduzione del comma f-bis) nell’art. 19, è stato attribuito il compito, nel caso che venissero rilevate delle deficienze sia dei mezzi che delle attrezzature di lavoro e comunque delle condizioni di pericolo, di interrompere temporaneamente l’attività e di segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate.

Nel caso in esame il preposto era stato ritenuto colpevole di avere cagionata, nella sua qualità di capocantiere, la morte di un lavoratore caduto da una altezza di circa 10 metri durante lo svolgimento dei lavori di rimozione di lastre di eternit poste sulla copertura di alcuni capannoni industriali, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia nonché in violazione di norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, in ragione della riscontrata carenza di presidi di sicurezza contro la caduta dall’alto, sia di tipo collettivo che individuali, e di aver fatto proseguire i lavori nelle condizioni indicate fino alla verificazione del sinistro, nonostante il giorno precedente fosse stato informato verbalmente dal responsabile per la sicurezza del cantiere della necessità di sospendere i lavori, stante appunto l’assenza nel cantiere di idonee misure di sicurezza contro la caduta dall’alto.

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato dall’imputato e, nel rigettarlo, ha messo in evidenza che era stato accertato che al momento dei fatti, l’imputato ricopriva la qualifica di preposto, espressamente assegnatagli dal POS, che aveva inoltre ammesso di essere stato nominato responsabile del cantiere, che disponeva di un’adeguata competenza tecnica, per aver ricevuto una formazione specifica da parte della società di cui era dipendente, che era stato inquadrato nell’organigramma aziendale all’interno di un ufficio tecnico, che era il referente diretto degli operai, che prendevano da lui direttive sulle cose da fare, che aveva fornito ai lavoratori la documentazione relativa al cantiere ed al piano di lavoro e che era costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento dei lavori, anche direttamente relazionandosi con il committente.

Il fatto, l’iter giudiziario, il ricorso per cassazione e le motivazioni.

La Corte di Appello ha confermata la pronuncia del Tribunale con la quale il preposto di un’impresa era stato condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione in ordine al reato di cui all’art. 589 c.p., commi 1 e 2, e art. 61 c.p., n. 3. L’imputato, in particolare, era stato ritenuto colpevole di avere, nella qualità di preposto, con funzioni di capocantiere, allo svolgimento di lavori di rimozione di circa 8.000 m2 di lastre di eternit poste a copertura di alcuni capannoni industriali, cagionato la morte di un lavoratore derivata da politraumatismo contusivo produttivo di lesioni cranio-meningo-encefaliche, fratture plurime di rachide e di bacino, sfondamento toracico e contusioni addominali, conseguenti a una sua caduta dall’altezza di circa 10 metri, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché violazione di norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, ed in particolare degli artt. 111, 115 e 148 in relazione al D. Lgs. 9 aprile 2008,n. 81, art. 18, comma 1, lett. f) e art. 19 in ragione della riscontrata carenza di presidi di sicurezza contro la caduta dall’alto, sia di tipo collettivo (ponteggi, reti di sicurezza, tavole) che individuali (linea vita, cinture di sicurezza). All’imputato era stato, altresì, contestato di aver fatto proseguire i lavori, nelle condizioni indicate, fino alla verificazione del sinistro, nonostante, il giorno precedente, fosse stato informato verbalmente dal responsabile per la sicurezza del cantiere della necessità di sospendere i lavori, stante l’assenza di idonee misure di sicurezza contro la caduta dall’alto.

Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore, deducendo, con un unico motivo, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla prova dell’avvenuto suo svolgimento delle mansioni di preposto e di capocantiere, altresì eccependo di non aver mai sottoscritto il piano operativo di sicurezza ( POS). A suo dire, infatti, sarebbe stata del tutto erronea la motivazione con cui la Corte territoriale aveva ritenuto, in occasione del sinistro, di individuare nella sua persona la figura del preposto e del capocantiere, atteso che ciò sarebbe stato contraddetto dalla sua preparazione scolastica e dal suo inquadramento all’interno della ditta, avendo il diploma di ragioniere e perito commerciale e avendo svolto a suo dire, all’epoca dei fatti, unicamente le mansioni di tecnico commerciale, come peraltro evincibile dalla lettura della sua busta paga e del suo contratto di lavoro. L’espletamento di tali mansioni, del tutto difformi da quelle di preposto, sarebbe stato, del resto, confermato anche dalle dichiarazioni rese da parte di alcuni testi escussi, che avrebbero esplicato come la figura del capocantiere fosse solitamente individuata tra i componenti della squadra addetta al lavoro, e non certo tra i tecnici commerciali.

Sotto altro profilo, del resto, il ricorrente ha dedotto di non aver mai sottoscritto il POS né di aver percepito alcun compenso ulteriore per l’espletamento di tale attività, così rendendo privo di ogni rilievo tale documento, in cui era stato indicato quale soggetto svolgente le funzioni di capocantiere.

Il Procuratore generale ha presentato delle conclusioni scritte, con cui ha chiesto che il ricorso venisse dichiarato inammissibile.

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

Il ricorso, manifestamente infondato, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione. La censura proposta, ha osservato la stessa, ha riproposto, di fatto, un’identica doglianza dedotta nel giudizio di appello, rispetto alla quale non può che essere ribadito quanto già, più volte, chiarito dalla stessa Corte di legittimità, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione.

A prescindere da ciò, il Collegio ha rilevato come il ricorrente si sia sostanzialmente limitato ad eccepire, in maniera assertiva e poco specifica, di non aver svolto le funzioni di preposto e di capocantiere in occasione della verificazione del decesso del lavoratore per cui, dunque, non avrebbe ricoperto alcuna posizione di garanzia idonea a legittimare il riconoscimento invece intervenuto della sua responsabilità penale. La censura, infatti, è stata finalizzata unicamente ad operare una rilettura in fatto delle emergenze probatorie acquisite, rispetto alla quale il Collegio non ha potuto non osservare come la motivazione resa dalla Corte di appello abbia rappresentato adeguatamente, senza illogicità alcuna, le ragioni della ritenuta integrazione della condotta criminosa da parte dell’imputato.

E’ risultato infatti congruamente accertato, ha sottolineato la suprema Corte, che l’imputato, al momento dei fatti, ricoprisse la qualifica, espressamente assegnatagli dal POS, di preposto, come, altresì, confermato da vari testi escussi. L’imputato, in particolare: aveva il possesso di tutti i documenti relativi ai lavori; aveva ammesso di essere stato nominato responsabile del cantiere; disponeva di un’adeguata competenza tecnica, per aver ricevuto una formazione specifica da parte della società di cui era dipendente; era inquadrato nell’organigramma aziendale all’interno di un ufficio tecnico; era il referente diretto degli operai, al quale, per quanto da essi espressamente dichiarato, riferivano il lavoro svolto e prendevano direttive su quello da espletarsi; aveva fornito ai lavoratori la documentazione relativa al cantiere ed al piano di lavoro ed era costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento dei lavori, anche direttamente relazionandosi con il committente.

Il compito della Corte di Cassazione, ha chiarito la stessa, non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Esula, quindi, dai poteri della Corte di legittimità la rilettura della ricostruzione storica dei fatti posti a fondamento della decisione di merito, dovendo l’illogicità del discorso giustificativo, quale vizio di legittimità denunciabile mediante ricorso per cassazione, essere di macroscopica evidenza.

Ciò precisato, ha sottolineato in conclusione la suprema Corte di Cassazione, si può senz’altro sostenere che, nel caso in esame quella territoriale, con motivazione ampiamente adeguata e logica, aveva fornito una chiara rappresentazione degli elementi di fatto considerati nella propria decisione, rispetto ai quali il ricorrente ha solo proposto una lettura alternativa, meramente finalizzata ad ottenere un esonero da responsabilità.

Fonte: Punto sicuro